2) COMBATTERE SULLE ALPI O IN PIANURA
La
terza guerra di indipendenza, pur disastrosa sul piano militare,
fece ottenere all'Italia nel 1866 il Veneto, avvicinando il
confine politico alle frontiere naturali della catena alpina. Il
nuovo confine con l'Austria ritornava ad essere quello che agli
inizi dell'evo moderno si era creato con l'affermarsi della
Repubblica Veneta; un confine geograficamente ed etnicamente
assurdo, per i criteri approssimativi con cui venne tracciato,
che rimase invariato fino agli inizi della prima guerra
mondiale.
Il bizzarro percorso di questo confine non seguiva linee
orografiche, ma tagliava decisamente le alte valli dell'Adige,
dell'Astico, del Brenta e del Piave. Lasciava all'Austria tutta
la parte superiore della Val Fella, passava a pochi chilometri
da Palmanova e terminava a Grado.
La difesa del nuovo confine, con il "saliente" del Trentino che
si incuneava nel territorio italiano e la "porta aperta" della
pianura friulana che invitava all'invasione, si presentava di
difficile soluzione dal punto di vista militare. A nord l'enorme
cuneo della valle dell'Adige puntato verso la pianura costituiva
un enorme vantaggio per l'Austria poiché consentiva di
utilizzare ben quattordici vie indipendenti di invasione:
Stelvio, Tonale, Giudicarie, Garda, Lagarina, Fugazze, Astico,
Assa, Brenta, Cismon, Cordevole, Boite, Misurina, Monte Croce di
Comelico. Di queste vie, solo sette erano caratterizzate da
valichi su displuviali elevate, quindi in parità di condizioni
offensive-difensive per Italia e Austria; nelle altre sette,
invece, l'Austria quale padrona delle alte valli era in
situazione di netto vantaggio, sia per la difensiva che per
l'offensiva. A ciò si aggiungeva la potenzialità della linea
ferrata del Brennero, inaugurata nell'agosto del 1867, e la
contemporanea costruzione di quella in Val Pusteria e in Valle
Drava, tali da consentire agli austriaci travasi imponenti di
forze da un fronte all'altro.
Ad est la situazione per l'Italia era ancora peggiore. Tutta la
pianura continuava a rappresentare l'atavica e comoda via di
invasione della penisola. Le Alpi Carniche e Giulie, rispetto a
quelle del Trentino, consentivano agli austriaci, grazie alla
loro migliore accessibilità, di eseguire un piano di attacco
mediante più combinazioni di linee, con minori difficoltà e
masse più concentrate rispetto a quanto si sarebbe potuto
realizzare nella parte settentrionale delle Alpi.
Nel complesso, aver ottenuto il Veneto significava per l'Italia
dover difendere un fronte montano ed uno di pianura, con due
fasci operativi a nord e ad est entrambi in grado di scardinare
l'intero sistema difensivo della pianura padana, con aggiramenti
e chiusure in sacche delle forze sistemate a difesa sui confini.
Tutto il problema difensivo nazionale dovette essere riesaminato
alla luce della nuova situazione.
Alla nuova frontiera con l'Austria, cosi difficile da difendere,
si aggiungevano le frontiere con la Francia e con la Svizzera
dove - per quanto il pericolo fosse meno incombente - bisognava
pur prevedere una sia pur minima difesa.
Considerata questa situazione alle frontiere, si può ben
comprendere il fervore degli studi militari dopo il 1866, per
risolvere il problema della sicurezza del giovane Stato. La
letteratura militare del periodo 1866-1872 riflette fedelmente
le discussioni circa il modo di impostare la difesa del Paese.
Poiché il confine correva in buona parte sulle Alpi si discuteva
se utilizzare o meno le montagne per potenziare la sistemazione
difensiva, oppure se combattere soltanto in pianura secondo la
strategia ufficiale, ed i pareri erano quanto mai discordi.
Le scelte di fondo operate dal ministro Ricotti a partire dal
1870, che comunque in parte erano già state fatte in precedenza,
riguardavano l'automatismo della mobilitazione, la rapidità
della radunata, l'impiego di forze in permanente assetto di
guerra lungo le frontiere per la copertura, la corrispondenza
dell'intelaiatura di pace con quella guerra in modo da evitare
di dover costituire ex-novo unità di prima linea. In particolare
riguardavano separazione dei compiti di addestramento, da quelli
operativi avvalendosi degli organi territoriali.
I distretti militari diventarono centri di reclutamento e di
mobilitazione per le unità di fanteria. Si discuteva come
risolvere razionalmente il problema della copertura delle
frontiere terrestri. La costituzione delle compagnie alpine uno
dei provvedimenti per realizzare tale copertura e le discussioni
vertevano sul modo di impiegare questi reparti nella difesa
delle frontiere. Il capitano Giuseppe Perrucchetti sostenne che
le unità alpine avrebbero dovuto rappresentare delle avanguardie
per l'azione di frenaggio nelle valli investite
dall'attaccante; al contrario, il tenente colonnello Agostino
Ricci sostenne che le unità alpine avrebbero dovuto svolgere
un'azione di arresto e aggiunse che il modo migliore di
difendersi consisteva nel prendere l'iniziativa attaccando
dovunque l'aggressore.
In sostanza, secondo Perrucchetti l'azione di copertura doveva
rappresentare un'azione a sé stante per dar tempo al grosso
dell'esercito di radunarsi in pianura, mentre secondo Ricci la
copertura era parte integrante della manovra generale perché
doveva impedire che le colonne avversarie giungessero in pianura
per riunirsi e costituire «massa». Quindi, secondo Ricci,
bisognava decisamente combattere sulle Alpi, e queste dovevano
essere considerate una zona di arresto e non una zona di
frenaggio.
Con la soluzione di Ricci la mobilitazione e la radunata
avrebbero potuto svolgersi in un'atmosfera di maggiore sicurezza
e i reparti alpini non avrebbero dovuto ridiscendere a valle per
unirsi al grosso dell'esercito come voleva Perrucchetti. Così la
copertura veniva ad assumere ancor più marcatamente la funzione
di elemento di sicurezza morale e materiale per le popolazioni,
poiché garantiva da improvvise violazioni del territorio
nazionale.
Secondo Ricci, poiché la copertura data dalle truppe alpine
doveva assumere un carattere prevalentemente offensivo come
elemento fondamentale della manovra generale, essa doveva essere
organizzata con reparti bene addestrati ad operare in montagna.
Queste le idee espresse sulla stampa militare prima della
creazione delle prime compagnie alpine, mentre la strategia
Ufficiale prevedeva di difendere l'Italia non sulle Alpi ma sul
Po, in quanto non si sarebbe potuto stabilire in precedenza per
quali valli l'invasore sarebbe venuto avanti. Quindi, per non
disperdere le forze, era stabilito che la difesa non dovesse
essere condotta sui passi o nelle strette della frontiera
alpina, ma al margine della pianura, dove alla massa
dell'avversario si sarebbe potuto opporre la massa delle nostre
forze per lo scontro decisivo. In caso di eventi sfavorevoli si
sarebbe potuto sfruttare con vantaggio il ridotto appenninico
per contenere l'invasione. Da qui l'affermazione, allora in
voga, che "le Alpi si dovevano difendere non sui monti ma sul
Po e sull'Appennino", zone nelle quali sembrava risiedere la
chiave di volta della nostra sicurezza nazionale.
Negli studi militari di quegli anni precedenti la formazione
delle prime compagnie alpine, il problema della guerra in
montagna, per nulla nuovo in Italia, acquistò improvvisa
attualità. Si era imposto all'attenzione generale con la
campagna di Garibaldi nel Trentino ne 1866, dove si svolsero le
uniche operazioni vittoriose del nostro esercito nella terza
guerra di indipendenza. L'avversario di Garibaldi, il generale
Kuhn esperto di combattimenti nelle zone alpine, pubblicò subito
dopo la campagna del 1866 un libro nel quale espose le sue
teorie sulla guerra in montagna. La traduzione italiana di
questo libro ebbe una certa risonanza nella stampa militare
italiana, poiché il generale Kuhn dimostrò efficacemente la
convenienza di difendere le Alpi e di combattere in montagna con
nuovi criteri e nuove tecniche. Queste idee vennero discusse
sulla nostra stampa militare. Tuttavia il pensiero ufficiale
fino all'anno 1872 continuava a rimanere ancorato all'idea di
difendere le Alpi schierando l'esercito in pianura dove si
pensava si sarebbe svolta la battaglia decisiva contro
l'invasore.
Prima del 1872, nell'appassionato dibattito nazionale sulla
difesa delle Alpi condotto con numerosi articoli sui quotidiani
e periodici, il capitano Perrucchetti non aveva mai fatto
sentire la propria voce, ed era quindi un illustre sconosciuto,
mentre il tenente colonnello Ricci era già un'autorevole
personalità, un insegnante di prestigio conosciuto da tutto
l'esercito, che aveva al suo attivo alcuni libri sulla difesa
nazionale e numerosi articoli pubblicati sullo specifico
argomento.
Inoltre, il primo ad affermare pubblicamente l'esigenza chiara e
precisa di difendere la frontiera alpina con truppe di
reclutamento valligiano fu proprio Agostino Ricci, prima ancora
che Perrucchetti pubblicasse il suo articolo sulla Rivista
Militare. A ciò si aggiunga che Ricci trattò ancor più a fondo
il problema con le campagne logistiche che organizzò e diresse
presso la Scuola di Guerra; e non tragga in inganno la dizione
"logistiche", perché si trattava di vere e proprie esercitazioni
con i Quadri in terreno alpino che duravano mesi, precedute da
una intensa attività preparatoria, seguite da discussioni,
relazioni e valutazioni sui risultati conseguiti circa
l'impostazione della difesa sulle Alpi.
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