A Nowo Postojalowka la Cuneense era
giunta, nella fase di ripiegamento, dalle posizioni che
occupava sul fiume Don, a causa dello sfondamento dei sovietici
nel settore tenuto dall'Armata Romena-Ungherese. Qui la
divisione male armata, già provata dalla fatica e dalla fame, si
trovo' a combattere contro un nemico superiore di numero e di
armi per aprirsi un varco verso casa. Nella battaglia vennero
praticamente annientati gli alpini del Saluzzo, del Ceva, del
Borgo S. Dalmazzo e del Dronero e del Mondovì e qui inizio il
calvario dei superstiti che continuarono ad avanzare combattendo
praticamente fino al 27 gennaio 1943, quanto la cattura del
Generale Battisti e degli ufficiali al suo comando, ne segnò in
pratica la fine.
Nonostante tutto questo, molti alpini non si arresero come il
maggiore Boniperti del Saluzzo che, con i suoi 150 uomini
rimastigli, cerco' di forzare il passaggio o come il comandante
del Mondovì, Lino Ponzinibio, medaglia d'oro al Valor Militare
che, seppur ferito, respinse l'ordine di resa e fatto schierare
a difesa quel che restava del leggendario “Mondovì” resistette
ancora per circa due ore con i suoi, i nostri alpini, inchiodati
nella neve sotto il fuoco di artiglieria e mortaio e quando i
russi convinti di aver completamente annientato il Battaglione
avanzarono, i pochi superstiti ebbero la forza di accogliere i
cosacchi a fucilate anche se ogni resistenza era impossibile e
vana. Fini così la gloriosa Divisione Alpina Cuneense a cui
toccò in questa tragica campagna il doloroso primato delle
perdite, quasi 14 mila fra ufficiali, sottufficiali, alpini
morirono o furono dichiarati dispersi in terra di Russia.
Armati di bombe a mano e fucili contro i carri russi: il
racconto di un reduce.
Dopo tre interminabili giornate, nel corso delle quali uomini,
animali e mezzi furono impegnati fino allo spasimo per cercare
di sfuggire alla terribile tenaglia dell’Armata rossa che si
stava chiudendo attorno al Corpo d’armata alpino, il 20 gennaio
1943 fu il giorno più lungo del ripiegamento della divisione
alpina "Cuneense" e costituì una della pagine più gloriose che
le penne nere abbiano mai scritto durante la loro lunga storia:
la battaglia di Nowo Postolajowka, durata circa trenta ore, di
cui inspiegabilmente si è sempre parlato poco, anche se fu
l’unica, importante battaglia combattuta sul fronte orientale
esclusivamente da truppe italiane, senza il concorso, seppur
minimo, di reparti o mezzi corazzati alleati, combattimento che
vide impegnati alcuni reparti della "Julia" e l’intera
"Cuneense".
Lasciamo ora la parola ad uno dei testimoni oculari del
combattimento: il tenente della "Cuneense" Assunto Bianco (il
racconto è tratto dal volumeRussia 1942-1943. La parola
ai reduci. Per non dimenticare, edito dall’Ana di Cuneo).
«Dopo tre giorni, in piena crisi di ripiegamento e con tutte le
difficoltà che si erano presentate in ogni momento, verso la
mezzanotte del 19 gennaio 1943, lo scaglione del I Reggimento
alpini, con i battaglioni
"Ceva" e "Mondovì" ed i gruppi "Mondovì" e "Val Po" del IV
Reggimento artiglieria alpina, raggiungono la dorsale alla cui
estremità era situato il caposaldo mobile russo di Nowo
Postojalowka, difeso da reparti autotrasportati e da un forte
nucleo di carri armati medi e pesanti. Contro di esso stavano
combattendo da diverse ore gli alpini dell’VIII Reggimento della
"Julia" il cui comandante, colonnello Cimolino, si incontrò col
comandante del I alpini, colonnello Manfredi. Dopo aver
esaminato la situazione, si concordò che un nuovo attacco
condotto da reparti efficienti, come lo erano
ancora quelli della "Cuneense", sarebbe stato in grado di
sopraffare il nemico.
Pertanto il colonnello Manfredi ordinò al battaglione "Ceva" di
sferrare l’attacco alle prime luci dell’alba, appoggiato dai
gruppi di artiglieria "Mondovì" e "Conegliano" e dall’84ª
Compagnia cannoni anticarro.
Con le compagnie in formazione d’assalto il "Ceva" partì
all’attacco. Sanguinose perdite aprirono vuoti tra le sue file;
mezzi corazzati nemici, sistemati tra le case, sparavano alzo
zero contro gli alpini che avanzavano di corsa armati di
moschetti e bombe a mano. Intanto sbucavano altri carri armati
dai boschi laterali ed allora la strage divenne generale.
Ne contai sette che avanzavano con orribile fracasso per poi
sparire in una nube di neve e di fumo. Sopra di essi si
trovavano soldati russi in tuta mimetica che sparavano con i
loro fucili mitragliatori, poi sparivano in altra direzione e
non si capiva se al ritorno erano gli stessi od altri. Si diceva
che la colonna di carri nemici fosse composta da una trentina di
mezzi, che fosse diretta contro la "Tridentina" e che solo per
pura coincidenza avesse incrociato la nostra divisione.
Intanto il "Ceva", che aveva subìto perdite rilevanti, era
costretto ad attestarsi in una posizione più arretrata per
riordinarsi. Erano caduti due comandanti di compagnia e la neve
era coperta di morti e feriti. Verso le nove i resti del "Ceva"
ripresero l’offensiva; si videro alpini scalare i carri nemici
per gettarvi nelle torrette bombe a mano. Cadde tra i primi il
Comandante del battaglione, sbrindellato da un colpo di cannone
di un carro armato. Intervenne nella lotta il battaglione
"Mondovì" che ne seguì le sorti. Cadde tra i primi il comandante
di battaglione, due comandanti di compagnia e quasi tutti i
comandanti di plotone. Il battaglione "Mondovì" perse
in tal modo in poche ore la sua forza ed i suoi uomini.
Verso le undici la situazione divenne disperata: i battaglioni
erano ridotti a qualche centinaio di uomini validi; dei pezzi
anticarro la maggior parte erano stati distrutti; alcuni di essi
e diversi pezzi da montagna erano stati schiacciati assieme ai
loro serventi dai carri armati nemici. Gli alpini e gli
artiglieri alpini giacevano in grovigli di sangue e di ferro;
erano caduti tutti e tre i comandanti di batteria del gruppo
"Mondovì". Ne vidi uno con la testa staccata dal busto vicino ad
un pezzo fuori uso in una buca nella neve. Numerose slitte
cariche di feriti e munizioni erano state schiacciate; il
munizionamento dei reparti ancora efficienti scarseggiava.
Verso mezzogiorno anche il nemico aveva momentaneamente
allentato la morsa, forse stupito da così coraggiosa resistenza;
mezza dozzina di carri armati erano inchiodati nella neve, altri
gravemente danneggiati; diversi soldati russi giacevano senza
vita attorno ad essi. Intanto i feriti venivano sgombrati; i più
leggeri sistemati sulle slitte, quelli gravi ricoverati nelle
poche isbe ancora intatte. Siamo stati costretti ad abbandonare
i morti sulla neve.
Verso l’una del pomeriggio anche il II alpini entrò in contatto
col nemico. I battaglioni "Saluzzo" e "Borgo San Dalmazzo"
incontrarono forti contingenti russi asserragliati in un gruppo
di isbe. Il combattimento infuriò subito violentissimo ed anche
in questa occasione i russi erano accompagnati dai carri armati T34 e
quattro di questi vennero bloccati e distrutti. Frattanto il
battaglione "Dronero", in
retroguardia, arrestava e respingeva il nemico che cercava di
aggirare i battaglioni di punta e catturava numerosi
prigionieri.
Poi l’ombra della sera cadde sul tragico campo di battaglia e
mentre i battaglioni "Borgo San Dalmazzo", "Saluzzo" col gruppo
"Pinerolo" venivano annientati, i resti del I alpini e dei
gruppi "Mondovì" e "Val Po"su ordine del Comandante si
raccoglievano e tentavano lo sganciamento dal nemico attraverso
una profonda valletta.Col "Ceva" e il "Mondovì" vi erano alpini
della "Julia" e resti dei battaglioni "Gemona" e "Cividale"
ridotti a sparuti drappelli. Con le poche slitte stracariche di
feriti e di armi abbandoniamo Nowo Postojalowka in fiamme. In
molte di quelle isbe che bruciavano erano stati ricoverati i
nostri feriti».
L’ineguagliabile spirito di corpo, la generosità, la formidabile
volontà, la calda umanità, la capacità di affrontare i pericoli
della vita, lo spirito di sacrificio diedero la forza a questi
uomini di uscire a testa alta da quella tremenda odissea. A quei
valorosi soldati che con grande dignità e senso di
responsabilità affrontarono durissimi sacrifici e sofferenze,
tali che la nostra mente oggi non riesce a concepire, a tutti i
caduti che sulle gelide nevi della steppa russa e nei letali lager sovietici
immolarono la loro vita vada la nostra riconoscenza e un
imperituro ricordo.
La nazione ha il dovere di ricordare i suoi figli e il prezioso
patrimonio che essi hanno lasciato alle nuove generazioni:
l’amor di patria, il senso del dovere, lo spirito di sacrificio
e di umana solidarietà, il senso di responsabilità, il desiderio
di vivere in pace e libertà.
(Romano
Marengo)
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