Nel 1943 e
poi nuovamente dalla primavera del 1945, migliaia
di persone, in gran parte italiani, vennero precipitati, non
sempre già morti, negli inghiottitoi che
si aprono nei terreni carsici dell’Istria e del Carso. Fu il
culmine di un odio fra due comunità, strette conviventi ormai da
millequattrocento anni, che era venuto crescendo, per pressioni
esterne prima che per ragioni locali, già nell’Ottocento con la
presa di coscienza nazionale degli slavi e la crescita del loro
capitale politico; ed era divenuto manifesto durante la Grande
Guerra,
quando sloveni e croati furono tra i soldati più fedeli agli
Asburgo. Il ventennio fascista, con l’italianizzazione forzata
di terre da
sempre “miste” per tradizione politica e culturale,
non aveva certo disinnescato la mina.
“Di fronte ad
una razza inferiore e barbara come la slava… non si deve seguire
la politica che dà lo
zuccherino, ma quella del bastone. I confini dell’Italia devono
essere il Brennero, il Nevoso e le
Dinariche: io credo che si possano sacrificare 500.000 slavi
barbari a 50.000 italiani”.
Queste le parole del capo del fascismo che diedero il via
all’italianizzazione forzata nel territorio istriano. Già nei
primi anni ‘20 gli squadristi avevano mano libera nelle loro
incursioni violente ai danni della popolazione facendo già uso
delle foibe come “strumento” di repressione politica; partì poi
nel ‘22 la campagna di italianizzazione vera e propria: divieto
di parlare in sloveno, chiusura di scuole “non italiane”,
licenziamenti, chiusura di quotidiani e periodici, devastazioni
di sedi associative e ricreative e cancellazione della
toponomastica slava compresi nomi e cognomi delle persone.
L’azione del governo fascista, volte a difendere la “razza
italica, molto prima delle infami leggi razziali, annullò
l’autonomia culturale e linguistica delle popolazioni slave ed
esasperò i sentimenti di inimicizia nei confronti dell’Italia.
Il giorno del Ricordo parla di foibe e di “esuli” di italiani
accomunando i due fenomeni in modo antistorico e scorretto: a
questo proposito non viene ricordato che, tra le due guerre
mondiali, gli esuli sloveni e croati dalla Venezia Giulia furono
oltre 100.000.
Una situazione destinata a peggiorare con la brutale invasione
del Regno di Jugoslavia nel ’41: insieme ai nazisti, l’Italia
fascista occupò Dalmazia, Slovenia e Croazia, imponendo a
quest’ultima la crudele dittatura degli Ustascia del
nazionalista Ante Pavelic. Furono anni di stupri, massacri,
bombardamenti e deportazioni di massa specialmente a danno di
serbi e altre minoranze; vi furono deportazioni di cui gli
italiani furono parte attiva con la creazione dei campi di
concentramento della Risiera di S. Sabba, a Trieste o di Gonars
a Udine.
Fu in questo quadro che si vide il sorgere del movimento
titoista panjugoslavo e comunista costituitosi intorno alla
figura di Josip Broz detto Tito, per
gli italiani d’Istria e Dalmazia, di Pola, Fiume, Zara, suonò
l’ora del sangue e delle lacrime. I
fatti, imperdonabili, non possono essere compresi senza la
contestualizzazione storica in un periodo di crescenti tensioni
e di oppressione, percepita e reale, sulla componente slava.
Due furono i periodi in cui si concentrò la violenza più
estrema. Già nel settembre-ottobre 1943 furono quasi un migliaio
gli italiani uccisi, a volte dopo tremende torture – noto, e
particolarmente penoso, il caso della studentessa Norma
Cossetto,
“colpevole” d’esser figlia di possidenti fascisti. Dopo i venti
mesi di occupazione nazista, l’affermarsi delle truppe titoiste
nella primavera 1945 coinvolse
per alcune settimane anche Trieste e Gorizia con
deportazioni, torture e uccisioni: furono circa tremila le
persone che trovarono la loro morte in fondo a una foiba,
contando poi quanti furono uccisi in altro modo e quanti,
militari e civili, perirono in improvvisati ma terribili lager
si arriva a
sfiorare i diecimila.
Non sempre le vittime erano italiane, non sempre gli assassini
erano slavi. Tutto ebbe luogo in una
mescolanza assai torbida di piani politici, sociali ed etnici,
per cui lo slavo era "comunista", e guai se non lo fosse stato;
e l’italiano "fascista", dunque nemico, anche quando non si era
mai schierato. Ex militi fascisti e collaborazionisti ma anche e
spesso insegnanti,
preti, professionisti tra le vittime: i
vertici della comunità nazionale italiana da sradicare
deliberatamente, quali che ne fossero le persuasioni politiche,
per rimuovere potenziali opposizioni all’ordine nuovo.
L’esodo degli italiani, “incoraggiato” con il terrore, cominciò
quasi subito, ebbe un’impennata nel 1947 con il trattato
di pace di Parigi, di
cui ricorrono i 70 anni dalla sua firma, e
l’evacuazione di Pola,
il suo momento simbolo;
continuò in seguito per anni, in modo meno organizzato, fino
agli anni Cinquanta inoltrati quando Trieste fu definitivamente
ricongiunta all’Italia e la zona del Capodistriano alla
Jugoslavia. Dall’Istria e dalla Dalmazia se ne andarono alla
fine circa
trecentomila italiani,
non sempre ben accolti in Italia, per pregiudizio o
incomprensione. I discendenti della piccola minoranza che restò,
bollata e additata dalle due parti, sono oggi ciò che resta di
quell’italianità “orientale”.
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