Prima fanteria da montagna del mondo, dalle Alpi ai deserti
d’Africa, passando per le steppe russe, il loro nome crea un
misto di rispetto e devozione. Ma proprio dall’Italia arrivano
le critiche più feroci al corpo militare che più si è distinto
nel campo della solidarietà in tempo di pace.
La scritta “Alpini assassini” è stata la calorosa accoglienza
che alcuni studenti trentini hanno voluto riservare alle penne
nere, in occasione dell’adunata 2018.
Un soldato toglie la vita, certo. Per questo ha incubi furibondi
che lo svegliano nel cuore della notte, per questo, a volte, lo
si vede piangere in disparte. L’ateo si ritrova a pregare, il
credente perde la fede. La guerra è una cosa strana e gli alpini
ne hanno vista tanta: Slovenia, Grecia, Russia, Isonzo, Vojussa,
Don. Eppure, ascoltando le canzoni che essi cantavano durante le
marce, tramandate sapientemente dai reduci, si ha la sensazione
di trovarsi di fronte ad una memoria collettiva fortemente
diversa da quella che si penserebbe di attribuire ad un corpo
premiato con più di 60 medaglie complessive: “il colonnello che
piangeva a veder tanto macello”, “non più coperte e lenzuola
pulite, non più il sapore dei caldi tuoi baci” non sono
esattamente espressioni marziali. Invece gli alpini erano
considerati davvero combattivi: “ma Francesco Giuseppe sugli
alpini mise la taglia, egli premia con la medaglia e trecento
corone d’or a chi porta un prigioniero”.
E così potrebbe finire l’epopea di uomini che non volevano far
la guerra, ma che vi sono stati costretti e hanno adempiuto al
loro dovere con determinazione e spirito di abnegazione. Ma il
“giù il cappello” gli viene da altra virtù, ulteriore anche a
quelle di cavalleria tanto apprezzate in ambito militare: la
solidarietà. Quando furono occupanti in Grecia, divisero il pane
con le famiglie rimaste senza tetto a causa del forte terremoto
del 1942. Le popolazioni russe addirittura coniarono il detto:
“italianski karasciò”, italiani brava gente. Don Gnocchi scrisse
di loro: “la religione, per questa gente, non è mai un momento o
un episodio; è uno stato, una forma, un modo di vita; sangue
vivo e succo vitale”. Non si sta parlando di santi, chiaramente.
Allo stesso tempo, però è giusto dare a Cesare quel che è di
Cesare e ricordare con rispetto coloro che, nell’ecatombe, hanno
dimostrato più di altri “umanità”, parola che in guerra non
trova quasi mai terreno fertile.
Questo quindi è ciò che “furono” gli alpini, mentre ciò che
“sono” gli alpini è palese ad un osservatore senza preconcetti.
Croce Rossa, Protezione civile e sussidiarietà orizzontale in
generale, parlano molto spesso il linguaggio della penna nera:
solo nel 2017 la loro beneficenza vale più di 70 milioni di
euro. Non male per ex militari di un paese in pace che ha
sospeso l’obbligo di leva, no? Perciò, anche se nel 2018 la
cartolina non giunge più e, come nel caso di Trento, invece,
giungono insulti e malversazioni, gli alpini hanno spalle larghe
e soprattutto cuori grandi per perdonare chi non ha voluto o
potuto camminare nei loro scarponi.
("varesepress”, maggio 2018)
|